raffaele solaini
raffaele solaini foto

In ossequio ad un sistema che sembra premiare i valori dell’efficienza, accade spesso di ascoltare uomini politici che rivendicano il proprio spirito pragmatico e scarsamente ideologico, declinando nelle sue diverse forme lo slogan, in realtà pregno di ideologia, «noi facciamo i fatti e non ci perdiamo nelle parole». Un motto dal sapore paradossale, se solo si pensa che si tratta, appunto, di uno slogan, di parole dette e non di fatti compiuti. Si intravede una contraddizione, superficialmente giustificabile come occasionale concessione agli obblighi imposti dalla società della comunicazione di massa, che richiede di rendere democraticamente conto della propria opera, quasi fingendo di scusarsi per la scarsa attenzione dedicata al momento dell’informazione e del pubblico confronto.

Piuttosto che un paradosso, ad uno sguardo appena più attento lo slogan “fatti non parole” appare senza senso. È ben noto come i fatti comunichino, diano mostra di sé, come essi siano in un certo senso parole, testi, e per questo legioni di esperti nelle teorie della comunicazione vengono convocati in occasione delle elezioni, per consigliare su ogni aspetto della condotta pubblica dei candidati. Meno chiaro è invece come, specularmente, le parole siano dei fatti. A ricordarlo sono in questo caso più spesso i filosofi. Con il linguaggio si compiono azioni, ad esempio si promette, ma anche, più banalmente, si comunica e si cerca di convincere i propri interlocutori. La discussione pubblica è uno dei fatti che l’uomo politico compie e, fra i tanti, è un fatto di natura eminentemente politica, in quanto attraverso di essa si istituiscono relazioni, si costruisce il consenso, si richiede la delega a governare e si spiegano le proprie scelte.

L’opposizione fra i fatti e la parole – come spesso accade nel caso di antitesi troppo nette e semplicistiche – non tiene, e lo slogan costruito su di esso significa in fondo poco. E tuttavia appare tanto efficace e immediatamente comprensibile, quanto è oramai radicato nella coscienza comune, sorretto da una lunga tradizione. L’antitesi fu codificata entro il sistema retorico, da quella già nobile e oramai decaduta disciplina di origine classica, nata con l’intento di studiare le forme del discorso persuasivo, morta nel momento in cui organizzò il proprio campo sulla base dell’opposizione fra res e verba; le cose e le parole. Il retore maneggia parole, ma considera più sincero il discorso che indica direttamente i fatti; dispone gli ornamenti, ma riconosce superiore eleganza all’orazione più semplice, che tralascia ogni inutile orpello manipolatore. Svolge quindi inevitabilmente il proprio lavoro con una cattiva coscienza, della quale gli odierni comunicatori non paiono essersi ancora liberati. (Altri, più consapevoli e integralisti, hanno risolto il problema assumendo che i fatti esistano solo in quanto appaiono e comunicano, annullando così ogni possibile tensione fra il mondo delle cose e quello del linguaggio e dei simboli.)

In questo contesto si sviluppa la “retorica dell’antiretorica”. Attraverso il discorso si sviliscono le virtù del discorso; si usa il linguaggio denunciandone al tempo stesso l’artificialità e la mendacità, aspirando piuttosto ad un mondo nel quale i fatti parlino da sé: «Non avremo bisogno di fare campagna, perché basterà la nostra azione politica a garantire il successo elettorale». Si tratta di una chiara bugia, solitamente impiegata da chi più investe in strategie di comunicazione senza volerne fare mostra, ma soprattutto di una abile finzione argomentativa. Si cerca di dire, mostrando di non voler dire, di parlare tacendo. Come se il silenzio non fosse un atto comunicativo, mentre l’asserita rinuncia a prendere parola non fosse un luogo retorico largamente praticato.

Contrapporre i fatti alle parole è solo un gioco di parole, un argomento in sé futile, indice però di una strategia più ampia e profonda. Mostra il tentativo di contrapporre una retorica buona, immediatamente sincera e non sofisticata da contorsioni linguistiche, ad una retorica cattiva, un chiacchiericcio tanto inconcludente e falso, quanto esteriormente elaborato, puro gioco di parole. E presume anche che il proprio discorso appartenga al primo di questi stili, che esso mostri i fatti per quello che sono, nella loro semplice immediatezza. Nel lessico dei semiologi tale argomento sarebbe considerato una strategia veridittiva: il linguaggio si nasconde e, nel nascondersi, asserisce la verità dei propri contenuti.

Non esiste una retorica buona, che dice solo e tutta la verità, e una retorica cattiva, che mente e manipola. Il linguaggio è sempre ed essenzialmente finzione, elaborazione, scelta di un punto di vista. Se una dimensione normativa può (e deve) essere recuperata, il criterio passa altrove, fra una retorica consapevole e dichiarata, e una retorica che si cela e mente circa se stessa. Si tratta di riconoscere come i propri argomenti, così come i fatti intorno ai quali si discute, esprimono interpretazioni parziali, ragionevoli ma non indiscutibili, contestando nel metodo e nei presupposti chi invece si arroga il diritto di iscrivere il proprio discorso entro un orizzonte di assoluta veridicità fattuale, che non ammette critiche o contestazioni.

Occorre, al fondo, scegliere quale strategia adottare: cercare, come in un gioco di specchi, di ribaltare la situazione, opponendo le proprie solide verità ai fuochi d’artificio altrui, oppure decidere di cambiare tavolo. Si tratta di una sfida intellettuale, etica e democratica al tempo stesso, da affrontare scommettendo anche sulla maggiore efficacia di una retorica consapevole. Consapevole del fatto che si tratta sempre e solo di parole, che hanno la loro importanza. Del resto, se non si crede profondamente, quasi fossero dei fatti, nelle parole che si spendono e nei valori che queste esprimono, come è possibile sperare anche che possano convincere?

FATTI, NON PAROLE
ITALIANO
ENGLISH
BIOGRAFIA
CORSI
SCRITTI
METODO
CONTATTI
barre
barra
Torna all'elenco
(Caffè Corretto)